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RECENSIONI

Premi sull' immagine per  ingrandire

 

In occasione della mostra “La Materia Moltiforme”
Lorenzo Mortara procuratore d’arte e letteratura
 

Le opere in ferro dell’artigiano e artista Roberto Mazzonetto di
Castiglione Olona , Varese; sembrano invece richiamare alla
nostra mente arcani congegni di antiche ere provenienti da altri
spazi, forme plasmate da concetti e idee di fuoco di antichi
pensatori , e al contempo messaggere di segni e simboli che
custodiscono le ambizioni e i sogni del nostro vivere quotidiano.
Queste strutture che racchiudono astrazioni e metafore del mondo
in cui vorremmo vivere, o che forse abbiamo vissuto, sono
partecipi di una creatività libera e indomita attraverso la quale
sembra prendere voce il pensiero di Eraclito, quando afferma che
la forma latente è padrona della forma evidente.

 

 

Massimiliana Pasetto Ganna Pittrice Figurativa
La ringrazio e le faccio i miei complimenti
Contrariamente a molte cosiddette opere che si vedono in giro si capisce e si apprezza che
per lei l’astrazione non è solo un modo di fare cose strane e veloci.
Nelle sue opere si sente la volontà di esprimere sensazioni e sentimenti e di trasmetterli a
chi le ammira.
Continui così
Non è facile e non è comune.
Vorrei che le vedessero alcuni cosiddetti Grandi Artisti Contemporanei: li aiuterebbero a
capire che l’arte nasce innanzi tutto da cuore e in queste opere si sente e molto bene.

 

Rolando Bellini Professore Universitario e Curatore
Ferro , questo il materiale dominante. Una lavorazione del ferro che richiama immediatamente il fuoco e
fors’anche il remoto filosofare dei presocratici, attualizzando così un’eredità millenaria dei Greci antichi,
nostri progenitori. Una lavorazione del ferro che sintetizza secoli di storia , dall’elaborazione manuale che
forgia la materia dando vita a forme nuove, al recupero e assemblaggio inedito di elementi o forme date
che prendono così nuova vita… Se si preferisce, da una certa tradizione della libera e innovativa lavorazione
del metallo al suo recupero e riuso entro spaesanti e o nuove composizioni figurali… questa è la sfida che si
propone attraverso le opere in mostra. Una sfida plastica che può essere sommariamente raccolta entro
precise coordinate storiche, andando a osservare da vicino le trame di un “fare” regionale e l’ordito coevo
costituito invece da coordinate geostoriche più ampie, sovraregionali e anzi, internazionali. E’ questo lo
scenario che si può o forse si deve richiamare nel presentare, questa mostra.
Una personale che, volendo spendere nomi illustri, parrebbe fare riferimento, sia pure a suo modo e cioè
filtrando il tutto attraverso una dichiarata soggettività allontanante ogni possibile modello o fonte, a un
ventaglio di nomi e di fatti d’arte. Essa parrebbe richiamare Mazzucotelli e dunque la sua felicitante
collaborazione col Sommaruga e al contempo, una legittima discendenza dai “ready made” duchampiani
richiamante talune proposte post-surrealiste. Su tutti un nome , Garelli. O no? Vediamo di compiere una
verifica calando più puntualmente nelle stesse pieghe del lessico di questo nostro Autore che propone,
oggi, la sua prima autentica “personale” , in quel di Castiglione Olona , dove ha radici. Laddove, diresti, egli
nutre il proprio lessico, la propria istanza creativa, attingendo alla storia dell’antico sito.
Gli assemblaggi e le forme aperte, simpatizzanti con le istanze informali o di un segno aggrovigliato e libero
dai lessici figurali di un’intera generazione travolta dall’internazionale Informel ma anche dal nuclearismo
cosmogonico di Lucio Fontana e seguaci, finiscono per accostarsi maggiormente, infine, a talune proposte
di Giancarlo Marchese. In particolare penso ai suoi grovigli di singolare energia. Si sommano così ai richiami
più o meno espliciti a una figurazione trasfigurata o surreale, alla Garelli, autore tra l’altro di opere
monumentali, gli altrettanto monumentali slanci plastici e gli sperimentalismi materici di Marchese che
riesce in sé a riunire e superare l’eredità di maestri come Marini e Minguzzi…Ma forse i nomi più vicini al
lessico formale che si va esplorando sono altri. Alik Cavaliere, per esempio, o sbaglio? Potrei azzardare,
avventurandomi nell’identificazione dei sommersi o segreti richiami offerti dalle opere in mostra, richiami
sommessi a quest’ultimo e, al tempo stesso, paradossalmente, ad altri che mi riconducono alla scultura e
finalmente a Luciano Minguzzi, o no? Fose s, con Minguzzi si debbono fare i conto, visto il possibile
richiamo, seppur trasfigurato e frainteso, a Giancarlo Marchese su cui vado insistendo. O forse è lecito
richiamare piuttosto Umberto Milani (ho in mente una sua grande opera parietale del 1954, tutta
geometrismi sospesi tra Doesburg e certe proposte Bauhaus, su tutti Max Bill; ancor più un suo parietale in
nero del 1958, già esplicitamente a-formale). Dovrei menzionare ancor più appropriatamente un Guerriero
di Grosso, ovvero i cavalieri di questi anni dell’ineguagliabile Marino Marini, molto probabilmente una delle
figure plastiche di primaria grandezza a livello mondiale, proprio allo scadere degli anni Cinquanta del
secolo scorso e per tutto il decennio che segue, o sbaglio? Un suo Guerriero, proprio del ’58, intendo dire:
un’opera grandeggiate di Marino Marini parrebbe un delle figure archetipiche del Nostro… Ma che dire,
poi di Francesco Somaini e delle possibili suggestioni sue su intere generazioni di giovani esordienti che
volevano liberarsi dell’aformatività, del concretismo del M.a.c., acronimo di Movimento arte concreta, una
delle nuove avanguardie milanesi dell’ultimo dopoguerra, che dire di altre istanze ritornanti all’irrisolta
eredità del Surrealismo? Da Enrico Baj – tra i fondatori del movimento “patafisico” milanese al più
“astratto” Carmelo Cappello (penso alle loro opere anni Sessanta-Settanta)… Ma Potrei fare altri nomi. In
ogni caso, si può pensare a un complesso paradigma indiziario attraverso cui si sommano e si annullano l’un
l’altro i suggerimenti ora di questo e ora di quell’autore, per tradursi piuttosto in una singolare sfida
plastica.Una sfida plastica che diresti priva di memorie storiche, nuda e cruda… Anche perché ogni richiamo
o attingimento ora al tale e ora al tal altro autore è, in queste opere in mostra, labile e lontano, una sorta
di suggestione inafferrabile come un fantasma e dunque un ricordo sfumato, leggero, transuente… che
sfocia in un melting inatteso, in un laboratorio plastico inusuale e certo originalissimo, crudo e selvaggio e
che ha dissipato i suoi stessi ricordi, per poter danzare libero da ogni formatività pregressa.
Un lessico ferruginoso, in cui la figura e la non figura si sommano e si mescolano generando ibridi inusuali.
Un lessico plastico in cui la durezza del ferro, la forza del ferro, la pesantezza ma anche la duttilità del ferro,
il suo essere materia tagliente e feroce, ovvero dolcissima e sofferente, lo stesso sapore del ferro finiscono
per farsi avanti e tutto fagocitare, tutto dominare… E’ la materia il primo comandamento di questo fare
arte. E’ la sua lavorazione la sua primeva ragione d’essere, il suo dna. La lavorazione dura , tenace,
affaticante ed esaltante al tempo stesso, di questo terribile materiale. Essa è seguita poi dall’assemblaggio
per via di mettere che è dato da saldature e nodi. Le saldature in specie rappresentano un particolare
procedere o essere della forma plastica o scultorea di chi, come il Nostro castiglionese, predilige il ferro,
poiché in questo caso ogni saldatura è un atto sperimentale, un’avventura fantasmatica e al contempo una
pausa rispetto alla incessante fatica delle mani che lavorano il metallo; è un affermazione di abilità
differente ma complementare rispetto all’altra che impone il corpo a corpo con la materia. Cosicchè la
saldatura-parte integrante di questo fare-è comparabile alla lavorazione, alla forgia del metallo, colpo su
colpo, fiamma su fiamma. Si scoprono allora , accostandosi ancor più alle singole opere in mostra, altri
valori, altre suggestioni e dunque altre loro ragioni formali. E con esse, nuovi possibili referenti. Saresti
tentato di azzardare un qualche fil rouge che corra tra Giuseppe Spagnulo e, nuovamente, Giancarlo
Marchese o forse Andrea Cascella e i suoi assemblaggi plastici più serrati o chiusi rispetto al Nostro,
tuttavia. Ma forse il nome che va fatto, più prossimo su un piano per così dire affettivo piuttosto che su
quello formale, potrebb’essere quello di Sangregorio. Di quest’ultimo ho in mente un opera del 1971 in
pietra, legno e marmo, Nel Paesaggio. Ma certo,un qualche richiamo potrebbe farsi pure ne riguardi di
Sandro Cherchi.
Dietro le spalle di questi e d’altri di cui eviterò il nome,tuttavia emergono due figure singolari, due scultori
della figura come Giuliano Vangi e Paolo Borghi, autori di figurazioni surnaturali ma al tempo stesso
richiamanti i canoni proporzionali e il sembiante della figura umana, giacche si ha comunque nel nostro
Artista, in queste opere ferrose in mostra, un richiamo figurativo, seppur sommerso, celato dentro
articolazioni a-figurali che occupano il primo piano, condizionando così la nostra più immediata o intuitiva
appercezione. Che resta però sospesa o irrisolta, e come insoddisfatta, fintanto che non scopre dietro o se
si vuole dentro queste forme a-formali una anima figurale, una qualche presenza figurativa che le
umanizza. Ogni singola opera in mostra, difatti, torna a rievocare una perduta umanità. Torna a farsi in
qualche modo figura umana. E’ l’eterno ritorno alla sfida rinascimentale dell’uomo misura di ogni cosa,
centro dell’universo, in ossequio al lascito del cardinal Branda Castiglioni? O che altro? E’altro ancora,
richiamante piuttosto la sofferenza dell’uomo post-freudiano e l’implosione della sua stessa sostanza e
forma generante un microcosmo indicibile o post-einsteniano? O sbaglio?
Probabilmente è proprio questo il punto, questa è la allusione a cui si vuole dare voce attraverso le singole
proposte plastiche in mostra e questo è, in effetti, quanto ho cercato di suggerire selezionando una rosa di
possibili interlocutori ideali per il Nostro, tanto più incisivi o suggestivi ma al contempo lontani e
originalmente assunti e rielaborati o metabolizzati quanto più egli può vantare una piena autonomia nei
confronti della sua stessa autonomia artistica. L’essere autodidatta , poiché questo è uno dei caratteri
peculiari del nostro Artista, sta in questo caso a significare – mi par lecito sostenere – una autonomia
plastica più schietta. Non priva certo di ingenuità, di difficoltà o asperità formali e fors’anche di incongruità
ma in ogni caso di una sua palese indipendenza, che ne fa un lessico dialettale affatto unico e fresco.
Francamente quanto orgogliosamente radicato a un territorio e un cultura artistica particolari , a un
mondo di esperienze, di suggestioni e di sperimentazioni di nicchia ma non per questo meno autentico
degli scenari internazionali del tempo presente. Indubitabilmente ricchi di linguaggi artistici straordinari ma
al tempo stesso, in larga misura subordinati a direttive perniciose dettate dal dominante sistema dell’arte
che non tollera siffatte autonomie , le libertà individuali. Dal momento che queste ultime contrastano
palesemente la degenerazione strumentale in atto a livello globale. Sto parlando di quella trasfigurazione
del prodotto artistico in un prodotto di mercato a cui, in effetti, la presente esposizione si oppone con tutta
l’ingenua immediatezza, la attraente sfrontatezza che solo un Artista indipendente può e sa manifestare,
privo com’è di insegnamenti togati, di orientamenti dall’alto, di condizionamenti tattici e invece totalmente
posseduto dal proprio fare, dalla urgenza dell’espressione di questo stesso fare plastico… Un fare senza
apparenti inibizioni, senza freni concettuali; un fare che è, a conti fatti l’esplicitazione di un godimento!

Alessandra Lancellotti Psicoanalista e Critico d’arte

 

Pittore del  ferro e del  fuoco, Roberto Mazzonetto, nato in una culla del sapere rinascimentale, fa del proprio sentire e ardire una sfida continua con i metalli che ha sempre lavorato nella fucina del padre a Castiglione Olona.

Da artigiano sensibile all’ansia di trasformare il ferro anche  in petali di rosa, in note musicali, o in sagome e sipari di sapore orientale, non esita in modo audace quasi irriverente, a tentare altre strade, con  una dose di humor e di in-ingenua, immaginifica visione.

Cosi mentre  rende l’”Inno di Mameli”(2006) il proprio personale  teatro di guerra fra antico e moderno, fra visione lirica  e onirica  del modo di trattare il ferro, trasforma le note in occasioni visive per far  vedere in quella composizione anche altro: una città eterna, fatta di note, di mi e di sol, ma anche di strutture architettoniche che ricordano da lontano la città di Platone o le cosmicomiche di Calvino. Le note dell’inno si trasformano cosi  con un salto audio-visivo in una metamorfosi corposa, come nei sogni, dove il significato si antepone al significante.

 Non contento del suo “Inno di Mameli”, dove le note diventano case di una dimora ideale ed eterna, eccolo giocare con i sentimenti di primitiva gioia (e dolore), in composizioni che ricordano tagli e ferite da Fontana  a Burri, inclinazioni  e sovrapposizioni di materiali alla Rauschemberg, dove date, numeri e nomi familiari diventano oggetto di una scultura primeva e naif, ma a  3D(EVM4810…Lacrime di ferro ).

Ricco di allusioni  pittoriche che ricordano  Roualt e Leger, incide il ferro nella memoria del proprio sentire in modo che tempo, spazio e familiarità giochino. 

In modo quasi futuristico e visionario. Cosi per la Biennale di Firenze (2013) ”Ethics DNA of Art”, porta lastre di lacrime , ma alla mostra di Genova (2014) a Palazzo Ducale  “Materia Multiforme” non esita a installare  le sue note come città dell’anima, novello cittadino del sentire.

Ma dentro al paradosso plastico delle sue sculture scorre  forte,  un sentimento, elargito senza pudore: la tenerezza, come regret, come nostalgia, come bisogno effusivo e morbido di sciogliere più che stringere nodi  emotivi e formali.

Un bisogno che si scioglie in pioggia e lacrime .

Oltre al desiderio di far brillare un sole che da tempo si e’ oscurato.

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